Citiamo questo contenuto.
http://www.peragendamonti.it/proposals/1150
Il link è ricco di spunti e ben argomentato dal punto di vista numerico.
La proposta (dopo una accurata argomentazione) si propone di rivedere la politica dei porti.
Occorre fare un ragionamento di merito sui porti di transhipment, sulle prospettive reali di sopravvivenza, sulla loro strategicità per il sistema portuale ed economico nazionale. Ciò fatto occorre poi prendere le decisioni di conseguenza.
Come per gli areoporti, anche i porti sono punto centrale della politica industriale italiana.
Con Decreto Interministeriale MIT (Passera) e MEF (Grilli) del 24 dicembre 2012 sono stati adeguati i valori delle tasse e dei marittimi in vigore nei porti italiani.
Tali tributi consistono nella tassa di ancoraggio (pagata in base alla stazza della nave) e nella tassa portuale (pagata in base alla tipologia di merce imbarcata o sbarcata).
Fin qui nulla di particolarmente strano, poteva trattarsi del consueto decreto di fine anno di adeguamento tariffario che avviene per una pluralità di servizi e che consente ai giornali qualche titolo durante le Festività.
Tuttavia c’è un MA. I valori dei tributi in questione erano FERMI al 1993. Ne consegue che, soltanto adeguando le singole voci al 75% del valore di inflazione Istat registrato durante il periodo in questione (1993-2012), ne è conseguito un aumento complessivo del 59,3% che il Decreto applica con gradualità (la maggior parte dal 1 gennaio 2013, la restante dal 1 gennaio 2014). Per gli anni successivi al 2014, poi, si ribadisce che tali tributi cresceranno annualmente in ragione del 75% del tasso di inflazione FOI accertato dall’Istat. Il Decreto è stato pubblicato sulla GURI il 5 gennaio 2013 ed è diventato esecutivo.
Immediate le reazioni negative di alcune Associazioni di settore (agenti, spedizionieri), di qualche giornale che sente comunque la necessità di attaccare l’operato del Governo,e, con mia grande sorpresa, anche di Assoporti (l’Associazione che raggruppa le Autorità Portuali).
Sono le Autorità Portuali (AP), infatti, i soggetti a cui vengono destinati tali tributi. Anzi, unitamente ai canoni di concessione demaniale, rappresentano le principali voci di entrata. Le ragioni delle critiche di Assoporti sostanzialmente attengono alla presunta perdita di competitività del sistema portuale italiano a favore di altri scali europei e non.
Alcune considerazioni di sintesi partendo da una premessa: prima di parlare occorrerebbe avere contezza di alcuni numeri (diceva il Presidente Einaudi: “conoscere per deliberare”): • Nel 2007, anno record della portualità italiana, nei porti sede di AP sono transitate 501,3 milioni di tonnellate di merce e sono stati incassati 208,5 milioni di euro tra tasse portuali e di ancoraggio (nonché 124,7 milioni di euro per canoni di concessione) • Nel 2010, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati sulle AP di fonte MIT, sono state movimentate 470 milioni di tonnellate ed incassati 204,3 milioni di euro (nonché 144,6 milioni di euro per canoni di concessione) • Sempre nel 2010 i primi 2 più importanti europei, Rotterdam ed Anversa: [movimentavano merci; incassavano da diritti e da canoni di concessione] rispettivamente di [429,9 milioni di tonnellate; 288,2 milioni di euro; 249,4 milioni di euro] per Rotterdam e [178,2 milioni di tonnellate; 95,1 milioni di euro; 132 milioni di euro] per Anversa • Il confronto Italia vs Anversa per il 2010 vede l’Italia, a fronte di volumi di traffico superiori del 163%, avere ricavi da tasse superiori del 115% e da canoni di concessione del 10%(!). Ciò solleverebbe ulteriori interrogativi anche circa l’importo e la congruità dei canoni di concessione rispetto agli investimenti realizzati dalle AP nei porti italiani (ma non è oggetto di questa proposta) • Se poi anziché fare riferimento ai porti del Nord Europa (ad Amburgo ad onor del vero tasse e canoni sono circa la metà di quelli di Anversa a fronte di movimentazioni per 121 milioni di tonnellate), ci spostassimo nel Mediterraneo, il gap crescerebbe ulteriormente poiché Marsiglia (porto n° 4 d’Europa per traffici) e Barcellona, incassano da tasse portuali quasi quanto Anversa a fronte di volumi di traffico rispettivamente pari circa alla metà ed ad un terzo.
La prima domanda che sorge, quindi, è la seguente: di che cosa stiamo/stanno parlando?
Eppoi, sulla presunta questione di competitività: il Piano Nazionale della Logistica (solo per citare l’esempio più recente di Pianificazione da “cassetto” dell’Italia in materia) ha chiaramente indicato che i porti italiani servono sostanzialmente le imprese del territorio italiano. L’idea quindi di perdere i ricchi traffici della Svizzera, Baviera ed Austria (ad eccezione di una quota di Trieste: oledotto & Tir Turchi) semplicemente non esiste. Quei mercati vengono serviti dai porti del Nord Europa (o da Koper) che pure hanno tasse portuali più alte (molto singolare!).
Se qualcuno andasse a vedere come si è evoluta la portualità italiana negli ultimi 15 anni, inoltre, scoprirebbe che la componente internazionale ha avuto una dinamica crescente fino al 2005 ma che dal 2005 è diminuita; nello stesso periodo, invece è molto cresciuta, e di molto, la componente di cabotaggio (i.e. il traffico tra porti nazionali) che nulla c’entra con il commercio estero e la competitività delle ns aziende ma attiene piuttosto a questioni di shift modale e produce, quello sì, benefici ambientali ed economici andando ad alleggerire il traffico stradale e contribuendo a diminuire le perdite del vettore ferroviario nazionale (meno treni merci si fanno,meglio è per Trenitalia Cargo! E comunque FS ha deciso che il suo core business è l’alta velocità, altra singolarità per una azienda controllata al 100% dallo Stato!).
In termini poi della c.d. autonomia finanziaria dei porti, le tasse portuali, direttamente correlate ai quantitativi ed alle tipologie di merci movimentate (con una riduzione per cabotaggio e infra-UE) sono da ritenersi molto più rappresentative della “bontà” di un porto stesso e del sistema Italia nel suo complesso rispetto alla tanto propagandata questione del’1% di IVA da assegnare agli scali italiani [si vedano in proposito: http://www.peragendamonti.it/proposals/448 ed anche http://www.peragendamonti.it/proposals/755%5D.
Assoporti, a parziale scusante, rappresenta TUTTE le AP italiane: a fronte di 21 che dovrebbero plaudire al Decreto ce ne sono 3 (seppure con diversi gradi di intensità) che quasi sicuramente verranno penalizzate, si tratta degli scali di transhipment ed in particolare del porto di Gioia Tauro (vedasi ancora http://www.peragendamonti.it/proposals/448). Tali porti, negli ultimi anni, per mantenere viva la propria competitività che andava scemando in ragione dell’avvento sul mercato di molti competitor localizzati nei Paesi della sponda sud del Med (in primis Port Said e Tangeri, tra l’altro collocati direttamente sulla direttrice di collegamento Suez-Gibilterra), avevano ottenuto dal Governo la possibilità di azzerare la tassa di ancoraggio (quella portuale non viene neppure incassata trattandosi appunto di traffici di transhipment). Ciò ha significato per la collettività dover rinunciare ad entrate, ripianare perdite relative agli oneri di gestione dell’AP (da ultimo un provvedimento di pochi giorni fa della Regione Calabria nel merito), impattare con tale decisione sui ricavi delle altre AP italiane (poiché la tassa di ancoraggio è strutturata in modo tale da esser pagata, o pagata zero, in un porto ma di valere per l’accesso a tutti gli altri scali) e, NEI FATTI, non risolvere i problemi di questo porto (che pure è cresciuto nel 2012).
E qui smettiamo di trattare di numeri astratti, ma parliamo di persone fisiche e di posti di lavoro. Purtroppo non mosche bianche nell’attuale situazione economica in cui versa il ns Paese ma atipiche per il settore portuale che, anche mantenendo sistemi corporativi di pool di manodopera, dopo la riforma del 1994 non aveva conosciuto crisi significative.
Per questo occorre (come sostenuto nel decalogo scritto quando ancora nulla sapevo del Decreto in questione) fare un ragionamento di merito sui porti di transhipment, sulle prospettive reali di sopravvivenza, sulla loro strategicità per il sistema portuale ed economico nazionale. Ciò fatto occorre poi prendere le decisioni di conseguenza. Questa è una tematica NAZIONALE, non locale. Il prossimo Governo sarà chiamato ad esprimersi anche anche su ciò. Altrimenti si rischia di perpetuare una agonia che abbiamo già visto in altri settori economici e che, forse, con 2.000 miliardi di euro di debito pubblico, non possiamo neppure pensare di poterci permettere.